Il punto di vista di
un cristiano copertine/copto, padre Samir Kalil Samir, che vive in Libano, una regione
fortemente islamica, ci aiuta a leggere la storia e il nostro tempo
Islam
e Cristianesimo una questione laica
Di
Dante Balbo
Al centro della Palestina,
in quella che una volta era chiamata la Svizzera del Medio Oriente, il Libano,
vive e lavora padre Samir Kalil Samir, gesuita, di origine egiziana. Caritas
Insieme lo ha intervistato, per capire con lui qualcosa di più della
“questione islamica”. Quella che segue è una sintesi dei concetti
che padre Samir ha lucidamente espresso davanti alle nostre telecamere.
Gli ultimi trent’anni
hanno visto l’accentuarsi nei paesi islamici di un fenomeno di radicalizzazione
della politica, che ha assunto sempre più il carattere di una vera e
propria campagna religiosa a tutto campo.
Immaginate di salire su di un autobus il mattino e di sentire recitare il rosario
per tutto il tempo, poi scendete per andare a bere un caffè e al bar
la radio trasmette salmi e cantici. Andate al supermercato, in banca, in posta,
ma dovunque, o si ascoltano storie di santi o si cantano canti di Chiesa. Neanche
nei tempi in cui la Chiesa costituiva un modello culturale si sono mai visti
interventi mediatici di tali proporzioni. Eppure in Libano questo succede davvero
e per un cristiano si tratta di una vera full immersion in un clima culturale
islamico. Non si può fare a meno di essere bombardati da ogni parte da
discorsi o citazioni coraniche.
Non si tratta tuttavia di un’invasione della religione nell’ambito
sociale o politico, ma viceversa dell’uso di un modello religioso da parte
di una struttura sociale e politica, al fine di mantenere la propria solidità.
Le Chiese cristiane tentano di contrastare questo fenomeno, organizzano incontri,
soprattutto per i giovani, per dar loro la possibilità di ascoltare anche
un’altra voce, ma i nostri ragazzi, usciti dalle riunioni, anche solo per
tornare a casa, debbono assorbire, volenti o nolenti, un nuovo bagno di fede
musulmana. Sono già una minoranza i cristiani, ma soprattutto sono schiacciati
da una maggioranza apparentemente compatta e decisa a propagarsi.
La distinzione fra politica e religione non è stata mai fatta nell’Islam.
Queste due dimensioni hanno sempre camminato insieme, e la religiosità
si è trasformata proprio in relazione alle differenti vicissitudini della
fortuna politica e militare del suo fondatore. Oggi tuttavia si assiste ad un’invadenza
del fenomeno religioso, che impregna tutta la vita, la scuola, la strada, le
case, i media ecc.
Le due anime di Maometto
L’Islam, prima ancora
di essere una questione religiosa è un progetto politico, che include
anche la religione, si impregna di essa costruendosi una autolegittimazione.
Questa radicalizzazione della religiosità è il risultato di una
estremizzazione di un fatto che comunque sussiste nell’Islam fin dalle
sue origini, perché questa fede è globale e modello per tutti
gli aspetti della vita.
Questo emerge anche dalla vita di Maometto, profeta fondatore dell’Islam.
La sua vita pubblica si snoda fra il 610 e il 632 d.C., con due periodi ben
definiti. Nella prima parte, fino al 622, Maometto vive a la Mecca, promuovendo
l’Islam, che era allora un piccolo gruppo, una realtà debole, in
relazione alla cultura dominante. Le rivelazioni coraniche di questo primo periodo
sono improntate alla tolleranza, all’apertura e al dialogo. Nel 622 si
trasferisce a Medina, dopo essersi alleato con questa città e aver stabilito
la sua influenza la organizza secondo i principi islamici, dalla politica ai
matrimoni, all’assetto militare.
Da questo momento inizia il periodo più bellicoso della sua vita, per
creare il grande Islam.
In dieci anni organizza qualcosa come 19 guerre, consolidando sempre più
il suo potere e aggregando attorno a sé tutte le tribù, fino a
poter tornare vittorioso e pacifico alla Mecca nel 630, due anni prima della
sua morte.
In questa seconda decade dell’attività di Maometto le rivelazioni
del Corano diventano più bellicose, il cammino di Dio deve essere percorso,
il Profeta deve essere difeso, chiunque si rifiuti di combattere la guerra santa
è un vile.
Una faccenda interna
Misericordia e apertura,
guerra santa e conquista per assoggettare gli infedeli, sono dunque coesistenti
nell’Islam e entrambe sacre, perché rivelazioni divine. L’Islam
non è un monolito, tutto estremista, né un gregge di moderati
agnelli fra i quali si è insinuato qualche lupo travestito, che ha distorto
il senso vero della fede mussulmana.
E’ vero però che ha al suo interno un problema e lo deve risolvere,
per incontrarsi o scontrarsi con il resto del mondo. L’ambiguità
di questa situazione si osserva ogni giorno, quando per parlare con gli stranieri,
dell’Islam si ricorda sempre la Misericordia, l’apertura, la tolleranza,
mentre contemporaneamente la radio, la scuola, la televisione, all’interno
dei paesi islamici continuano a lanciare messaggi di incitamento alla guerra
contro l’occidente pagano. Il problema è tutto interno all’Islam,
che deve decidere quale identità assumere, pena il rischio della sfiducia
del mondo non mussulmano.
Dall’altra parte l’Occidente, problema e cura per l’Islam
Il primo aspetto della “questione
islamica” dunque è una domanda che si pone ai nostri amici mussulmani,
che devono poterci dire quale delle loro due anime hanno scelto, quale prevarrà
all’interno del loro mondo e determinerà lo sviluppo futuro delle
nazioni islamiche.
C’è l’Islam che cerca il dialogo con la modernità, che
vorrebbe rinnovarsi, che cammina con i tempi, ma non riesce a trovare in Occidente
un modello valido che sappia conciliare progresso e tradizione, fede e fiducia
nello sviluppo, apertura ai valori della dignità umana e conservazione
del patrimonio tradizionale.
C’è l’Islam battagliero, che teme tutto ciò che minaccia
la sua identità, che considera un fallimento ogni concessione alla cultura
occidentale, che minaccia l’equilibrio di leggi eterne, sacre, fissate
dalla volontà di Dio.
L’impossibilità di conciliare queste due identità si è
accentuata però, in relazione diretta alla caduta dell’identità
proprio dell’Occidente.
La tolleranza non è uno sciroppo “Tutti i Gusti”
Il dialogo con un mondo
in crisi non è facile, ma è reso ancora più difficile dalla
cosiddetta “cultura della tolleranza”, che ha scambiato l’accettazione
del diverso con l’oblio di se stessi. Gli emigrati mussulmani che vengono
in Europa non si trovano più di fronte ad un mondo con le sue radici,
le sue tradizioni, le sue regole. Perciò non riconoscono più la
differenza fra ospite e ospitante.
Se io vado in un posto dove la regola è che prima delle sei del mattino
non si può far rumore, siccome sono ospite, cercherò di adattarmi.
Se però la regola non è così chiara, perché troverò
qualcuno che mi difende se faccio chiasso alle quattro di mattina, sostenendo
che altrimenti sarebbe violata la mia dignità di minoranza, non saprò
più come comportarmi, rischierò di sbagliare e di emarginarmi.
Questo succede, semplificando, agli immigrati mussulmani che spesso si trovano
ad essere emarginati, perché non hanno davanti un modello preciso con
cui confrontarsi. E’ allora che fra essi possono aver facile presa la propaganda
e il proselitismo di Imam Uahabiti, (l’Uahabismo è la corrente estremista
islamica che ha le sue radici in Arabia Saudita), che offrono loro la sicurezza
di un’identità forte, precisa, con un nemico da sconfiggere: l’Occidente
decadente e pagano.
Il dialogo è possibile solo fra identità forti, capaci di incontrarsi
perché non hanno paura di essere fagocitate, capaci di accogliersi con
la chiarezza del loro statuto, di ospite e ospitante, di cultura dominante e
minoritaria.
La cultura mussulmana può essere preziosa per l’Occidente, laddove
questo sappia chi è, che cosa vuole, dove ha le sue radici.
Per rispettare l’Islam riformare l’Europa
Gli emigrati saranno affascinati
se incontreranno in Occidente persone e civiltà che riescono a recuperare
le loro tradizioni, che non perdono la fede, senza arroccarsi su posizioni di
rifiuto della modernità.
Se i cristiani ritroveranno la forza della loro testimonianza, conciliando la
fede con l’accoglienza dei valori del nostro secolo, l’uguaglianza
fra uomo e donna, la democrazia, il rispetto della libertà religiosa
ecc., non potranno che essere di modello ed esempio per i nostri amici mussulmani,
che riscopertine/copriranno la possibilità concreta di mettere insieme missione
e rispetto.
Non si tratta di convertire l’Islam, ma di mostrare che c’è
una terza via, diversa dal radicalismo estremista o dal modernismo ateo. In
questo senso, dunque, la responsabilità del futuro dell’Islam non
è solo dei mussulmani, anzi, riguarda gli europei e i cristiani in particolare.